Il sostituto procuratore di Forlì ha chiesto di condannare per istigazione al suicidio il padre di Rosita, liceale sedicenne che si è lanciata dal tetto della scuola. Abbiamo chiesto all’esperto quale siano i segnali che devono allarmare i genitori e come intervenire se un figlio minaccia di uccidersi
I campanelli d’allarme ci sono. Ma, spesso, vengono sottovalutati, sia in famiglia, sia a scuola. Secondo le stime Istat, ogni anno in Italia circa 500 adolescenti arrivano a togliersi la vita e il suicidio è la seconda causa di morte tra i giovani. Il 24 per cento degli adolescenti ha pensato, almeno una volta, a un gesto estremo. «In realtà è molto difficile riuscire ad avere a disposizione dati attendibili, perché il fenomeno è sottostimato», ci spiega Matteo Lancini, psicoterapeuta, presidente della Fondazione Minotauro di Milano, autore, fra gli altri, del libro Abbiamo bisogno di genitori autorevoli (Mondadori).
«Ad esempio, molte volte i giovani che hanno tentato il suicidio vengono dimessi dall’ospedale con una diagnosi che omette quello che è successo. Altre volte quelli che vengono considerati incidenti, in realtà, sono suicidi». La verità è che parlare di morte, e peggio ancora di suicidio, soprattutto quando riguarda gli adolescenti, è ancora considerato un tabù. Ma questo, secondo lo psicoterapeuta, è il più grande errore che un genitore possa fare.
Perché?
«Anche se si tende a credere il contrario, non è vero che chi dice che si suiciderà non lo farà. Se un adolescente fa capire ai genitori di avere intenzione di togliersi la vita, la madre e il padre devono prendere molto seriamente il suo messaggio. E intervenire».
In che modo?
«Devono avere il coraggio di chiedergli: “Hai voglia di morire?”, e devono ascoltare la sua risposta e le sue motivazioni. Alcuni adulti credono che di certi argomenti sia meglio non parlarne per non istigare, ma le ricerche dimostrano che non è così. Affrontare l’argomento in modo diretto e dare ascolto alle voci dei ragazzi è esattamente quello che bisogna fare».
A volte i tentativi di suicidio vengono considerati «gesti dimostrativi» dai genitori. Lo sono?
«Quella di “gesto dimostrativo” è una delle definizioni più pericolose. Il più alto fattore di rischio per il suicidio è il fatto di averlo già tentato: qualsiasi tentativo di uccidersi, anche quello che potrebbe sembrare più banale, va preso in carico. Se anche il ragazzo, dopo il tentativo di suicidio, dice di avere fatto solo una “bravata”, rimane a rischio. In un caso su 3, chi ha provato a togliersi la vita, dopo 6 mesi o un anno riproverà a farlo, con modalità più drammatiche».
Perché gli adolescenti hanno spesso pensieri suicidi?
«Lo fa uno su due. L’adolescenza è un periodo fatto di difficoltà: se non si percepiscono prospettive e speranze per il futuro, ma solo ostacoli che sembrano insormontabili, si può decidere di voler scomparire. L’adolescenza è il momento in cui si prende per la prima volta consapevolezza delle difficoltà della vita. Fra i fattori “precipitanti” ci possono essere i conflitti con genitori, brutti voti scolastici, il cyberbullismo».
Chi è più vulnerabile, le femmine o i maschi?
«Statisticamente provano a uccidersi più le ragazze che i ragazzi, ma i maschi muoiono più spesso, perché scelgono modalità più drammaticamente efficaci. Le femmine, invece, tentano di avvelenarsi: c’è più tempo per intervenire e salvarle».
Quali sono i segnali che devono allarmare i genitori?
«Bisogna fare attenzione non solo quando i ragazzi annunciano di volersi suicidare, ma anche quando mostrano eccessiva tristezza o provano a scappare di casa. A quel punto tocca all’ adulto cercare il dialogo e affrontare l’argomento».
È sufficiente parlare con il ragazzo?
«Parlarne abbassa il fattore di rischio, ma se i problemi sono grandi e non si risolvono, occorre fare un lavoro psicologico insieme a uno specialista. L’adulto deve essere in grado di andare oltre le proprie idee e i propri preconcetti, e prendere sul serio il figlio, ricalibrare le reazioni in base al problema del suo ragazzo prima che sia troppo tardi».